GDPRPUBBLICAZIONI“Fra valore e valorizzazione economica dei dati personali”

29 Dicembre 20220

Il dato personale è una parte di noi e della nostra identità, quali persone. D’altra parte, per chi sulle informazioni e sui dati ci costruisce il suo business, conoscere i nostri gusti, le nostre tendenze, anche solo i nostri dati di contatto, è un carburante imprescindibile. Il dato personale ha indubbiamente un valore. Da qui il quesito: fin dove ne viene riconosciuto il valore, dove invece ha inizio una pericolosa – e spesso, inconsapevole per l’interessato – valorizzazione economica?

Il fenomeno della valorizzazione economica del dato personale non è una novità – d’altronde, laddove vi è un valore, ci sarà un mercato  pronto avalorizzarlo. Spesso non consideriamo che nella nostra vita quotidiana, durante le nostre azioni più semplici di interazione con altre persone, con le aziende da cui acquistiamo prodotti e servizi online o in negozio, anche solo per effettuare spostamenti, forniamo in continuazione i nostri dati personali.

Frequentemente, il conferimento dei nostri dati è necessario per ottenere ciò che richiediamo.

Volendo fornire un esempio tanto banale quanto illuminante, naturalmente per effettuare la spedizione del prodotto che acquistiamo online è necessario fornire l’indirizzo di spedizione. Durante la fase di conferimento dei dati, le aziende compliant con la normativa privacy, forniscono un’informativa al trattamento dei dati che descrive all’utente le finalità e le modalità del trattamento. In tali testi, spesso bistrattati, vengono descritti anche i trattamenti facoltativi, che si fondano sul consenso dell’interessato. Quale esempio principe, pensiamo alla carta fedeltà. In questo caso, lo scambio fra valore del dato personale e la sua valorizzazione economica da parte dell’azienda è chiarissimo: a fronte della possibilità di avere informazioni sugli acquisti e sui gusti del consumatore, quest’ultimo otterrà utilità economica, come sconti, punti, buoni spesa. Sebbene i testi informativi contengano informazioni circa il trattamento dei dati, spesso gli utenti sottovalutano l’importanza degli stessi ed inconsapevolmente “accettano” trattamento accessori e/o facoltativi spesso celati della aziende.

Non ci si vuole in questa sede concentrare sulla necessità di correttezza delle aziende nel presentare un’informativa privacy che sia effettivamente chiara, comprensibile e facilmente accessibile all’utente – fondamentale, certo, ma ormai fatto noto. Il focus del presente ragionamento vuole spingersi oltre.

Che cosa succede quando il trattamento dei dati personali è perfettamente descritto all’utente, presentato in modo chiaro, ma si fonda su un do ut des pericoloso ed eticamente discutibile?

Il fenomeno della data monetization, in attenzione da parte delle Autorità Garanti di tutto il mondo, sta aprendo un dibattito giuridico, etico ed economico assai interessante. Il punto di partenza frequentemente è lo stesso interessato, solo ed esclusivo “padrone” dei propri dati personali: l’interessato può essere portato a pensare che, se ormai da tempo, dei terzi sui suoi dati personali ci costruiscono un guadagno, se effettivamente le informazioni che lo riguardano hanno un valore economico, perché non approfittarne e decidere di fornirli dietro corrispettivo? Recentemente è stata discusso il cookie wall che taluni quotidiani nazionali proponevano all’utente, consentendogli di effettuare la scelta fra l’avere accesso alla lettura delle notizie abbonandosi (quindi, pagando in denaro) oppure mediante l’accettazione di determinate tipologie di cookie di profilazione (quindi, volendo semplificare, pagando in informazioni). In un proprio comunicato, il Garante Privacy ha informato che “la normativa europea sulla protezione dei dati personali non esclude in linea di principio che il titolare di un sito subordini l’accesso ai contenuti, da parte degli utenti, al consenso prestato dai medesimi per finalità di profilazione (attraverso cookie o altri strumenti di tracciamento) o, in alternativa, al pagamento di una somma di denaro.” (https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9816536). Nello stesso comunicato, si aggiunge che sono in corso istruttorie per accertare la conformità di tali iniziative con la normativa europea.

La data monetization inoltre si ha in tantissimi altri ambiti. Da ultimo si porta l’esempio dei sondaggi.

Navigando sul web, vi sono siti di sondaggi che, per invogliare l’utente alla loro compilazione, presentano vantaggi in denaro, dei premi. Vantaggi economici del tutto irrisori se prestiamo attenzione alle informazioni che possono essere richieste all’utente, che si spingono anche a dati personali relativi alla salute, non solo dell’utente, ma dell’intero cerchio familiare. Informazioni sulla vita sentimentale, sulle abitudini di consumo, sui gusti personali. La prospettiva di accumulare 0,50 cent, davvero rappresenta un impulso per l’utente nello sbandierare informazioni che spesso, di persona, eviteremmo accuratamente di fornire ad uno sconosciuto?

In conclusione, dal “right to be left alone” (diritto di essere lasciati da soli/in pace) da cui ha avuto storicamente inizio la normativa a protezione della riservatezza e dei dati personali, ne è passata di acqua sotto ai ponti e si potrebbe azzardare si stia andando verso “un diritto di decidere di essere disturbati, pagando”.

Fra conformità formali e discussioni etiche, si auspica una presa di posizione chiara a livello normativo, volta alla tutela dell’utente, se non a prescindere, almeno valorizzandone la consapevolezza riguardo alle proprie azioni di data monetization.

 

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